Strada del Vino Vesuvio e dei Prodotti Tipici Vesuviani
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PRESENTANO
I giorni del Lacryma Christi, Premio “Amodio Pesce”
Palazzo Mediceo – Ottaviano (NA)
12 – 13 - 14 settembre 2008
In collaborazione con:
REGIONE CAMPANIA
PROVINCIA DI NAPOLI
COMUNE DI OTTAVIANO
CAMERA DI COMMERCIO DI NAPOLI
ISTITUTO COMMERCIO ESTERO
PARCO NAZIONALE DEL VESUVIO
ISTITUTO ALBERGHIERO “LUIGI DE’ MEDICI”
Il Lacryma Christi
di Luciano Pignataro
Signore e signori benvenuti nel regno del Lacryma Christi. Gli scavi di Pompei, quelli di Ercolano, e ancora Oplonti, le terme di Stabia, il Museo Ferroviario di Pietrarsa a Portici, lì dove terminava la prima linea italiana costruita dai Borbone per far star comodi i nobili quando si trasferivano in villa, quello del Corallo a Torre del Greco, due grandi santuari dedicati alla Madonna: l’autostrada Napoli-Salerno, ricavata tra la lava raffreddata dal mare dell’eruzione del 1631, è l’unica che porta al Paradiso. Le splendide ville, le masserie immerse nel verde con vista su Capri e Sorrento, gli scavi archeologici e il golfo di Napoli riescono a far dimenticare il caotico puzzle urbanistico più a rischio del mondo: qui in questo suolo fertile l’agricoltura di qualità rialza la testa e si propone all’interesse degli appassionati e dei gourmet.
Qui più che altrove si avverte l’esigenza di tutelare il territorio e la tradizione della più fertile e grande dispensa che per secoli ha sfamato la capitale del Regno con i prodotti facilmente coltivati sul suolo lavico ricco di minerali, naturalmente già ben drenato e baciato dal clima mediterraneo. Meraviglie e vantaggi del vulcano bicipide come appare dal mare: più in basso il monte Somma, cioè il cratere antico, a quota 1.279 invece il Vesuvio nato per distruggere le antiche città romane.
Da sempre l’aspetto più importante del lavoro nei campi della terra nera è costituito dalla viticoltura. Certo gli ortaggi, tra cui spiccano i friarielli (broccoli), i carciofi di Acerra o di Stabia, le albicocche dalle cento varietà (Pellecchiella, Boccuccia liscia, Boccuccia spinosa, Cafona, Carpone, Baracca, Vitillo, Monaco, Prete, Palummelle,...), celebrate nelle sagre estive, i pomodorini da serbo di piccole dimensioni, le ciliegie, gli agrumi, le noci, le olive, sono tutti prodotti inimitabili, veri cru della biodiversità, ricchi di sali e zuccheri, dal sapore marcato, tipico.
Sin dai tempi dei primi coloni Greci venuti dalla Tessaglia è l’uva la vera protagonista delle masserie e degli orti: la falanghina, la coda di volpe qui confusa con l’uva caprettone, la verdesca (per i bianchi), il piedirosso noto anche come Per’’e Palummo, ossia piede di colombo per via del graspo caratteristico, lo sciascinoso e naturalmente l’aglianico (per i rossi) sono i vitigni tipici più diffusi e conosciuti. E ancora la catalanesca, ottima uva bianca da tavola portata dagli spagnoli e ancora coltivata soprattutto alle falde del monte Somma adesso vinificata in purezza dopo le prove svolte all’Università di Portici. Dal mix delle varietà su elencate, dove alcune uve rendono morbida l’acidità di altre, nasce il Lacryma Christi, tra i vini italiani più conosciuti all’estero, doc Vesuvio riconosciuta ufficialmente nel 1983. Più precisamente nel rosso in genere si compensano il difficile aglianico e il beverino piedirosso mentre nel bianco è la falanghina a conferire freschezza al caprettone o alla coda di volpe, in genere usata nell’Irpinia per abbassare l’acidità quasi sempre eccessiva del fiano di Avellino e del greco di Tufo.
Parliamo anzitutto di leggende di cui bisogna dare conto: Lucifero rubò un pezzo di Paradiso e lo usò per costruire il golfo di Napoli. Addolorato per il furto e la perdita, Gesù Cristo avrebbe pianto a dirotto e dalle sue lacrime nacque l’uva per il vino Lacryma Christi. Un’altra versione narra invece di Cristo in visita ad un eremita redento che prima del commiato gli trasforma la sua bevanda poco potabile in vino eccellente. Versioni cristiane ereditate dalla mitologia pagana ben radicata sin dai primi insediamenti umani come dimostrano l’affresco di Bacco sul Vesuvio conservato nella Casa del Centenario a Pompei e le sue infinite presenze nei resti romani scampati all’eruzione del 79 dopo Cristo, la più famosa e terribile di cui si ha memoria umana.
Se la produttività del riso è alla base dello sviluppo demografico dei cinesi, la fertilità del suolo vulcanico di quasi tutta la Campania con l’eccezione del Cilento, ha consentito a Napoli, nel Settecento, di essere la città europea più popolosa dopo Parigi, e di sopravvivere sia pur sempre affamata: verdure, legumi, ancora verdure e solo più tardi la pasta. A lungo i napoletani sono stati soprannominati magnafoglie, e questa necessità è diventata quella virtù gastronomica che ancora oggi caratterizza la tradizione partenopea: le migliaia di ricette vegetariane, arricchite dalla carne del maiale dell’orto o, nei giorni di festa, dai capretti di Sant’Anastasia, erano innaffiate dai vini del Vesuvio, in genere squilibrati, spiccatamente acidi che compensavano le fritture della tradizione araba o piatti saporiti come la parmigiana di melanzane, il ragù, broccoli e peperoni saltati o ripieni, i legumi e i semi in generale il cui commercio è una delle attività principali alle falde del vulcano.
Ma il Lacryma ha una marcia in più: dal 1996 è stato infatti istituito l’Ente Parco del Vesuvio, l’area protetta più piccola d’Italia, appena 8.440 ettari. La Doc si incrocia con i perimetri del Parco perché la superficie del disciplinare è di 8.000 ettari circa, di cui 1.100 di vigneti di cui circa 400 iscritti a doc. L’intera area è divisa in due zone: quella che comprende l’alto colle oltre i 200 metri, caratterizzata da terreni in pendio e l’altra sul versante sud orientale del vulcano i cui terreni oltre ad essere di formazione più recente e quindi più fertili, sono anche meglio esposti. Il territorio, infatti, non è omogeneo: quello vesuviano è più arido e assolato, esposto a sud, caratterizzato dalla tipica vegetazione mediterranea con pinete e lecci in grande recupero mentre il versante sommano già annuncia l’Appennino con i castagni, le querce, gli ontani, gli aceri, ancora i lecci e addirittura qualche betulla. La vite, ovviamente, alligna in entrambi.
La doc interessa Boscotrecase, Trecase, San Sebastiano al Vesuvio e parte dei comuni di Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Boscoreale, Torre Annunziata, Torre del Greco, Ercolano, Portici, Cercola, Pollena Trocchia, Sant’Anastasia e Somma Vesuviana, in pratica tutti i paesi costruiti alle falde del vulcano. Il disciplinare precisa che il bianco può essere fatto con coda di volpe o caprettone che dir si voglia, da sola o con verdeca a costituire almeno l’ottanta per cento, il resto può essere falanghina e greco. Quanto al rosso (ed al rosato) si usa il piedirosso da solo o con lo sciascinoso (qui chiamati rispettivamente palombina e olivella) con aggiunta di aglianico mai superiore al 20 per cento. Quando si raggiungono i 12 gradi allora i vini possono assumere la qualificazione Lacryma Christi che, a sua volta, prevede anche i tipi spumante e liquoroso. La Doc è affiancata dal 1996 dalla Igt Pompeiano, estesa a tutti i comuni della provincia di Napoli meno quelli dell’isola d’Ischia. Le sue specificazioni possono riguardare aglianico, coda di volpe, falanghina, piedirosso e sciascinoso realizzati con almeno l’85% del vitigno dichiarato.
Oggi la qualità dei vini del Vesuvio non teme confronti con gli altri territori potendo anzi giocare un asso in più, quello della mineralità che regala l’impronta di una tipicità inconfondibile, capace di sposare sia la cucina classica partenopea con il rosso, sia quella, più moderna, dell’alta ristorazione o della Costa con il rosato e con il bianco. Non mancano ottimi esempi di appassimento che aprono nuovi orizzonti. Un grande vino, dunque, figlio di uno dei territori più affascinanti e ricchi di storia del mondo.
di Barbara Farinelli, pubblicato il 12/09/2008